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Covid-19: ora è più aggressivo che in estate?

Da quando il nuovo coronavirus (SARS CoV-2) ha fatto la sua comparsa sulla scena socio-sanitaria mondiale, condizionando prepotentemente il nostro modo di vivere e di agire, non si fa che chiedersi: “il coronavirus è soggetto a mutazioni?”, “queste mutazioni lo renderanno più o meno aggressivo?”, “se il virus muta troppo e troppo in fretta ha senso lavorare a un vaccino?”. Purtroppo trattandosi di un virus abbastanza “giovane” le risposte a queste domande sono spesso contrastanti e non sempre attendibili, quello che è certo è che scienziati di ogni parte del globo stanno studiando questo virus ed è solo a loro che dobbiamo fare riferimento.

In questo articolo cercheremo di sintetizzare quelle che, almeno finora, sono le certezze legate al coronavirus per chiarire se ora il virus è più aggressivo che in l’estate o se il nostro organismo in questo momento è più suscettibile alle infezioni rispetto a qualche mese fa.

Il coronavirus è diventato più o meno aggressivo?

Sono mesi che non si fa altro che parlare di mutazioni del coronavirus e su quanto queste mutazioni possono condizionare la contagiosità e la letalità del virus; ma sappiamo davvero in cosa consiste una mutazione genica di un virus e perché può essere importante dal punto di vista patogenetico?

Tutti i virus sono dotati, come noi, di un particolare corredo genetico costituito da un singolo o doppio filamento di acido nucleico che può essere l’Acido Desossiribonucleico o DNA (proprio come il nostro) oppure l’Acido Ribonucleico o RNA. Ed è proprio da qui (e dalle diverse informazioni racchiuse nel patrimonio genetico) che parte il diverso comportamento e la diversa capacità di replicare e di mutare di un virus. Per definizione (anche se ovviamente possono esserci delle eccezioni) i virus a RNA, come il SARS CoV-2 (il coronavirus ormai noto a tutti costituito da un singolo filamento di RNA), si replicano molto più velocemente rispetto a quelli a DNA ed è a questa celerità replicativa che si deve la maggiore probabilità di andare incontro a mutazioni del patrimonio genetico.

Quasi sempre queste mutazioni geniche rappresentano una sorta di “vantaggio evolutivo” nel senso che sopravvive chi ha caratteristiche migliori e sono molto più frequenti nel momento in cui il virus fa il cosiddetto passaggio di specie cioè quando un virus che inizialmente ha una selettività specifica per un determinato animale muta per adattarsi anche ad un altro essere vivente.

Una caratteristica del nuovo coronavirus è che rispetto agli altri muta meno (come si evince da un articolo pubblicato su Nature sono state stimate circa 12.000 mutazioni dall’inizio del 2020 ad oggi) ma di queste mutazioni la maggior parte decorre in maniera silente cioè senza determinare alcuna modifica nel comportamento del virus. La mutazione che sta facendo più parlare di sé e che potrebbe essere alla base di questa tanto discussa teoria secondo cui il virus ora è più contagioso che in estate riguarda una delle proteine, la proteina spike, responsabile dell’adesione del virus alle cellule dell’organismo da infettare, la cosiddetta mutazione D614G. La proteina spike è quella che determina la formazione delle caratteristiche “punte” sulla superficie del coronavirus che gli conferiscono quella forma che tutti abbiamo imparato a conoscere. Questa proteina è essenziale per il virus perché è proprio quella che maggiormente condiziona la sua capacità di aderire alle cellule bersaglio e quindi di infettarle.

Il virus portatore di questa mutazione ha preso subito piede in Europa e nel resto del mondo prendendo il sopravvento sul virus originale, tanto che è la forma più diffusa nel mondo tranne che in Cina dove continua a prevalere il virus senza la mutazione D614G. Da quanto è emerso dall’osservazione del comportamento del virus in questi mesi sembra altamente probabile che la mutazione D614G determini un vantaggio in termini di adesione alle cellule dell’ospite e di aumento della contagiosità (con aumento anche della carica virale nei campioni biologici dei soggetti infetti) ma sembra non condizionare il decorso clinico né tantomeno sembra modificarne la letalità. Analizzando infatti i dati e paragonandoli a quelli della prima ondata (marzo-aprile) sembra evidente come a fronte di un maggior numero di contagi (frutto verosimilmente anche di un maggior numero di tamponi effettuati) la percentuale tra casi positivi e ricoveri e tra casi positivi e decessi sia rimasta sostanzialmente invariata; quindi il virus sicuramente sta circolando molto di più, i positivi si individuano e si isolano molto più velocemente ma il virus non è affatto più aggressivo infatti dal punto di vista della gravità del quadro clinico e della mortalità il coronavirus è rimasto praticamente immutato.

Riguardo invece all’impatto che queste mutazioni potrebbero avere sull’efficacia del vaccino e se ha senso continuare ad impiegare risorse per lo sviluppo di un vaccino se poi il virus è caratterizzato da questa spiccata capacità di mutare possiamo dire prima di tutto che i virus hanno delle porzioni maggiormente soggette a mutazioni ed altre invece più stabili e sono proprio queste ultime il bersaglio della maggior parte dei vaccini. Per rispondere invece alla domanda se è sensato indirizzare la ricerca verso la scoperta di un vaccino efficace dato che il virus è così mutevole la risposta è senza dubbio “SI!” basti pensare a uno dei virus più mutevoli finora conosciuto e cioè il virus dell’influenza per il quale abbiamo un vaccino estremamente efficace. Una buona notizia è che al momento 4 vaccini sono in fase 3 di sperimentazione ciò significa che in soli 8-9 mesi ben 4 vaccini sono alla fase che prevede la somministrazione su larga scala per confermare l’efficacia e l’assenza di effetti collaterali ed è quella che precede la commercializzazione. Come sempre l’ottimismo e la buona risoluzione di ogni situazione deve derivare dalla scienza e dalla ricerca e quindi non lasciamoci andare ad allarmismi o complottismi che lasciamo ai tuttologi del web.

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